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Anche quest’anno abbiamo partecipato, non come blogger ma individualmente, al Premio Letterario De Leo-Brontë organizzato dalla professoressa Maddalena De Leo, rappresentante della Sezione Italiana della Brontë Society. Lo scorso anno The Sisters’Room ancora non esisteva, ma quest’anno ci regala la possibilità di condividere con i nostri lettori le composizioni con cui abbiamo partecipato al concorso.
In occasione del bicentenario, il concorso dell’anno 2016 è stato interamente dedicato a Charlotte. Si poteva partecipare con una poesia o una lettera, e requisito fondamentale era che la composizione contenesse riferimenti espliciti alla vita o alle opere dell’autrice.

Questa è la lettera con cui ho partecipato alla sezione prosa. Nella stesura mi sono ispirata al nostro viaggio in Belgio sui passi di Charlotte, a ciò che ho visto di Bruxelles, e in particolar modo ad un evento singolare della vita dell’autrice che viene raccontato nelle lettere ma anche in Villette: la confessione a Santa Gudula.
La mia piccola opera è stata pubblicata all’interno dell’antologia Brontëana V, classificandosi prima nella sezione dedicata alle lettere e regalandomi una grande emozione.  Grazie a chi di voi la leggerà con piacere.

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Lettera da Bruxelles

Cara Charlotte,

sono in Belgio da tre mesi e ancora non c’è nulla di mio in questa stanza minuscola, nel centro di Bruxelles. Il colore delle pareti è bianco, il mobilio è freddo, asettico, per niente di mio gusto; la libreria è vuota e senza ricordi. Pensavo che avrei potuto iniziare a riempirla pian piano, pensavo che sarebbe stato bello ricominciare da capo in un luogo dove nessuno sa chi sei e dove nessuno si aspetta nulla da te. Pensavo alla gioia di tornare a casa cresciuta, arricchita, una persona nuova. Pensavo ma non sapevo. Non sapevo che la solitudine è una compagna ingombrante e che la nostalgia arriva sempre di sera.

Quando si fa buio a volte, per sfuggire alla tristezza, passo il tempo alla finestra e mi diverto a guardare dentro le finestre dei palazzi del centro così antichi, belli, maestosi. Di fronte alla mia stanza c’è una casa meravigliosa piena di lampade sempre accese e mobili raffinati; quando sono in strada, riesco a scorgere perfino il soffitto dipinto di azzurro e bianco quasi fosse un cielo. Questa sera nel salotto c’è un uomo di spalle che guarda la televisione, e nella stanza accanto una donna seduta al tavolo sta scrivendo qualcosa su un foglio di carta. Guardando meglio dentro quella casa riesco a scorgere i quadri e le foto alle pareti, osservo i gesti rilassati di chi vi si muove dentro e penso a quanto deve essere bello sentirsi accolti, al sicuro.

Sono arrivata per insegnare l’inglese ma per quanto ami questo lavoro, mi manca la mia città. Niente in questo posto del mondo mi è familiare: non conosco l’odore delle strade, non conosco la lingua, non so nulla delle abitudini della gente. Da quando sono qui i miei sogni hanno iniziato a prendere forme strane, sono ibridi in cui si sovrappongono le immagini della mia terra con quelle di questa nuova città. Scopro qualcosa di nuovo ogni giorno lungo le strade di Bruxelles, ma a volte le scoperte hanno un caro prezzo e ogni singolo passo in questo paese straniero pesa il doppio: perché quando sei in un luogo che non conosci nessuna via è già stata percorsa, e devi stare sempre attento a dove metti i piedi.

Durante le ore di lavoro a scuola la mia giornata scorre veloce ed è piena di volti, di risate, di parole, ma quando torno a casa il tempo rallenta inspiegabilmente e sento solo silenzio. I miei colleghi sono gentili ma il mio carattere è timido, riservato, difficile da avvicinare oltre il limite della conoscenza. L’unica persona che mi aiuta a sentirmi meno sola sei tu, che da qualche tempo te ne stai lì, stampata sulla copertina dell’unico libro che campeggia nella mia libreria ancora immacolata.

Ricordo ancora, era un sabato pomeriggio quando ti ho incontrata. Mentre sprecavo il mio tempo ad osservare la gente vivere, ridere, camminare da dietro il vetro di una finestra, ho improvvisamente avuto voglia di uscire anche io senza una meta precisa. L’ultimo periodo a scuola era stato molto stressante e i miei pensieri diventavano sempre più malinconici. Così ho deciso di cambiare rotta, recuperare la mappa ormai dimenticata in fondo alla valigia e andare. Volevo inventarmi un percorso, un’avventura, volevo fingermi spensierata e ritrovare in fondo a quella valigia semivuota da mesi la voglia di scoprire. La giornata era fredda e piovosa. Nonostante fosse estate, il vento tirava forte ed era difficile orientarsi con la cartina in mano, così durante un momento di pioggia incessante decisi di rifugiarmi dentro uno dei  luoghi più conosciuti di Bruxelles: la cattedrale di Santa Gudula. Sebbene l’avessi vista molte volte, non avevo mai sentito il bisogno di visitarla. Appena entrata sono stata accolta da un silenzio sordo ed una luce calda; due file di sedie scure mi indicavano la via principale invitandomi ad entrare. Mi sono seduta per qualche minuto. Pur non essendo credente, penso di aver compreso e provato in quegli istanti la sensazione di calore, pace, accoglienza, di cui parlano i cristiani. Mi sono sentita di nuovo al sicuro. Ho chiuso gli occhi per un po’, ed ho iniziato a sognare casa.

Improvvisamente, il suono delle campane mi ha ridestata da quei bei pensieri ed ho guardato l’orologio. Era ora di tornare. La pioggia era cessata e mentre scendevo distrattamente le scale della chiesa i miei occhi sono caduti su un libro, appoggiato in un angolo di quegli enormi gradini di marmo bianco. Era capovolto. L’ho raccolto con due mani ed ho letto il titolo: Villette, di Charlotte Brontë. Aprendo una pagina a caso trovai queste parole sottolineate da una matita sconosciuta:

Che cosa stavo facendo qui sola nella grande Londra? Cosa avrei fatto l’indomani? Quali prospettive avevo nella vita? Quali amici avevo sulla terra? Da dove venivo? Dove sarei andata? Che fare? Bagnai il cuscino, le braccia e i capelli con un fiume di lacrime. Un cupo intervallo di pensieri ancora più amari seguì questo sfogo; ma non mi pentii del passo fatto né desiderai di tornare indietro. L’indefinita ma forte persuasione che era meglio andare avanti piuttosto che indietro, e che io potevo andare avanti – che una strada, per quanto stretta e difficile, si sarebbe aperta con il tempo-, aveva il sopravvento sugli altri sentimenti.[i]

Ho chiuso il libro e l’ho stretto forte al cuore. Da un altro spazio, da un’altra epoca, sulle scale di quella cattedrale mi sei corsa incontro. Improvvisamente non ero più sola.

 

                                                                                                                                                    Selene Chilla

 

[i]CHARLOTTE BRONTË, Villette; Fazi Editore, Roma 2013, pag. 75